Quando un italiano trapanò il Cerro Torre: storia di ambientalismo e pulizia.

Quando, nel 1959, due alpinisti partirono alla volta del Cerro Torre, considerata una delle ultime grandi cime da conquistare, all’indomani di un Everest già domato e di confini ormai troppo vicini al cielo, le aspettative erano alte e i risultati meno positivi del previsto. 

Il corpo dell’austriaco Toni Egger rimase tra i ghiacci, da qualche parte, sotto la cima che poi prese il nome di Torre Egger. L’altro, ridiscese portandosi dietro una storia a cui non tutti credettero e che voleva lui, Cesare Maestri, e il compagno, arrivati in vetta a quei 3128 m. Maestri venne ritrovato una settimana dopo la caduta di Egger, in stato confusionale e senza prove fotografiche capaci di dimostrare che sì, la cima l’avevano raggiunta veramente. Di conseguenza, l’incapacità di credergli fino in fondo prese contorni sempre più marcati fatti di spedizioni che non riuscivano a ripercorrere la loro via e incongruenze nel racconto dell’alpinista. 

Se nessuno crede che tu ce l’abbia fatta, prendi un compressore e trapana la via fino alla cima: ecco le conclusioni che Maestri tirò dopo dieci anni dall’accaduto. Stipulò un contratto con la Atlas Copco che gli pagò il viaggio fino in Patagonia e lo munì del pesante trapano che, a loro detta, avrebbe reso più facile e veloce attrezzare la salita. Chissà come doveva apparire il burbero trentino mentre dava tutta una nuova coloritura di significati al concetto di “lotta con l’Alpe”, lassù appeso col suo compressore e i suoi chiodi a espansione, mentre più in basso c’era solo il rumore del motore che faceva lavorare il trapano e partecipava attivamente alla scalata del Torre. Accadde che Maestri tirò davvero le coordinate metalliche di una nuova via d’ascesa alla cima, con l’ostinazione e l’irriverenza che possono scaturire solo dal volersi portare a tutti i costi un pesante trapano per poco più di 300 m, solo per poter dire “avevo ragione io”. 

Non si limitò a questo, però: ben consapevole del fatto di essere momentaneamente l’unico alpinista presente sullo spigolo sud-est del Cerro Torre, decise di lasciare appeso il compressore poco sotto il grande fungo di ghiaccio terminale, ridiscendere con calma e impegnarsi a cavare via alcuni dei chiodi che aveva appena finito di mettere. Così, giusto per ribadire ancora una volta l’unicità dell’impresa compiuta con Egger e il fatto che i futuri scalatori avrebbero potuto tranquillamente arrangiarsi in qualche modo con ciò che rimaneva della loro via. 

Maestri non assaltò la cima nel ’70, né negli anni seguenti, a riprova di una cocciutaggine che andava ben oltre la bandierina da apporre tra le pietre della cima e che si traduceva in una provocazione lanciata all’intero mondo dell’alpinismo, lo stesso che si era preso beffa di lui per un decennio. L’ostinazione con cui rese vana l’ascesa al Torre e i futuri tentativi di intraprendere la via su cui tanti avevano avuto da ridire, non fece altro che aumentare le polemiche sull’intera questione.

Le provocazioni andavano da ambo i lati, da una parte Maestri e la montagna violata per una prima e irripetibile volta (sarà solo nel 1979 che Jim Bridwell riuscirà a ripercorrere la via Egger-Maestri fino alla cima); dall’altra, chi faceva la conta dei lati scoperti su cui andare a punzecchiare l’alpinista. 

Maestri venne condannato come alpinista e come uomo, ciò che accadde gli anni seguenti dette vita a un vero e proprio circo mediatico per addetti ai lavori. Lo si criticava perché lui e Egger non potevano essere arrivati in cima, perché il suo racconto non reggeva, perché altri avevano provato e avevano trovato le prove del suo mentire. Insomma, tutto ben lontano dall’ideale romantico dell’alpinismo, un po’ cavalleresco, un po’ elegante, di cui autori come Italo Neri e Ugo Martegani amavano scrivere: la faccenda Maestri dimostrò come il mondo dell’alta montagna fosse ormai diventato uno sport tra tanti, fatto di sponsor e competizione.

Non si trattava più di mostrare la via per altri, quella piccola grande idea del far spazio a chi verrà dopo. No, ormai era un gioco fatto di egocentrismi, un “sono arrivato prima io” dove la conquista della cima raccontava qualcosa di chi l’aveva raggiunta, quasi che la montagna non fosse altro che il palcoscenico su cui esibire la propria arroganza di uomo. In questo, Maestri era figlio del suo tempo e chi lo criticava non poteva aver molto da recriminare perché mosso dai medesimi sentimenti. 

La storia del Cerro Torre, però, è interessante anche per un altro aspetto, forse più rilevante. Posto il fallimento pratico del portarsi in spalla un pesante compressore, a essere rimessa in discussione fu l’intera concezione dell’arrampicata. Lontano dalla Patagonia e da un’Europa fedele alle proprie Alpi, in America si creavano i presupposti di un nuovo modo di vivere la roccia e la scalata: lo Yosemite divenne in pochi anni il luogo di ritrovo per chi rimaneva fedele allo stile di vita hippie, fatto di allenamento, droghe e vita di comunità. Ai piedi di El Capital nacque l’idea del clean climbing, di uno stile di arrampicata che faceva proprio il principio del non lasciar traccia. Alla fine della scalata, la roccia rimaneva indenne, così come era stata trovata dai primi arrivati. 

Gli anni erano gli stessi: mentre Maestri proseguiva la sua battaglia contro i detrattori e un po’ ovunque spuntavano nuove vie chiodate aperte da famosi alpinisti che si inventavano modi alternativi per raggiungere le cime, l’America figlia del Walden di Thoureau decideva di cambiare rotta, preferendo all’imposizione del proprio tracciato su roccia, il silenzio dell’adattarsi alla natura del luogo. Non era la lenta partita a Risiko di chi a colpi di martello (o trapano), chiodo su chiodo, decideva di conquistare la montagna applicandovi la stessa idea di rivendicazione che utilizzava in altri campi; era, piuttosto, la pulizia di chi si sente ospite in casa di altri, un voler lasciare tutto com’era che univa il pacifismo all’ambientalismo. 

La volontà di non nuocere, di non far rumore, muoveva questi climber che facevano proprio un modo tutto particolare di prendersi cura della natura e della montagna. Se è vero che gli alpinisti “hanno la loro parte di responsabilità nella protezione delle montagne”, come scrisse anni dopo Nicolas Jaeger, si può dire lo stesso per chiunque decida di muoversi tra cime e rocce. Si trattava di occupare il giusto spazio, bastare a sé stessi e alla pietra per il tempo strettamente necessario alla salita. La montagna era di tutti, e di nessuno, cosa che, storicamente, viene periodicamente dimenticata per poi tornare in auge a intervalli più o meno regolari. 

Potremmo vedere nel clean climbing un esempio di non azione, l’annichilimento dell’intervento umano su una natura che può far da sola: è la presa d’atto che la montagna non ha veramente bisogno di noi e che la nostra presenza lì non ne favorisce in alcun modo la conservazione. Se pensiamo all’ambientalismo degli ultimi anni, dove si cerca di mettere una pezza su decenni di errori squisitamente umani, leggere oggi la storia dell’arrampicata americana può farci interrogare sul nostro rapporto con l’ambiente.

Forse, qualche volta, vivere la natura con l’accortezza di voler limitare le tracce del proprio passaggio, sentendone la responsabilità di fronte a chi verrà dopo (come già scriveva René Daumal nel 1944), può essere un buon modo per limitare i danni del vivere umano. Ecco che non si tratta più di plasmare la montagna a propria immagine e somiglianza, quanto, piuttosto, di annullare il proprio passaggio, fingere che non sia successo e proseguire, un incontro che lascia il più immutata possibile la roccia. Forse, si tratta solo di pulizia.

In chiusura, un paio di letture:

Gino Buscaini, Silvia Metzeltin, Patagonia. Terra magica per alpinisti e viaggiatori, dall’Oglio editore, 1987

René Daumal, Il monte analogo, Adelphi Edizioni s.p.a., Milano, 2020

Marco Albino Ferrari, Racconti di pareti e scalatori, Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino, 2011

Nicolas Jaeger, Solitudine. 60 giorni solo a 6700 metri, dall’Oglio editore, 1981

Reinhard Karl, Montagna Vissuta: tempo per respirare, dall’Oglio editore, 1982

Reinhard Karl, Yosemite. Arrampicare nel paradiso verticale, dall’Oglio editore, 1986

Italo Neri, Ugo Martegani, Terribile Everest, Licinio Cappelli Editore, Bologna, 1953

Henry David Thoureau, Walden ovvero Vita nei boschi, Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino, 2015

(Articolo pubblicato per Arkadia Collective Lab)

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