Corollario per uomini in cerca di solitudine: prima parte.

Fa bene la solitudine? Sì, fa bene. Solo che dà delle prospettive drammatiche.

Chi scrive è Werner Herzog: era il 1974 e il regista stava attraversando a piedi i chilometri che separavano Monaco da Parigi per raggiungere l’amica malata Lotte Eisner. Di quell’esperienza pubblicò anni dopo il diario, racconto di giorni passati in solitaria, notti spese tra fienili e rifugi di fortuna, qualche albergo, l’inverno che si avvicina, la neve e gli scarponi troppo nuovi per quel viaggio. Le persone sono un contorno, appaiono qua e là tra le pagine di diario, fantasmi la cui presenza si traduce in un incontro non voluto, a volte evitato, capitato lungo il viaggio come poteva succedere di imbattersi in cose come i camion o gli animali domestici. Herzog ne parla senza cercarne l’intimità, descrive velocemente gli incontri, preferisce soffermarsi maggiormente sulle sensazioni che il camminare gli provoca.

Il vero protagonista del diario è l’ambiente circostante, specchio capace di riflettere e trasformare, rimodellando i contorni di chi vi si perde libero dagli agi della quotidianità. Vivere in questo esterno silente, in balia degli accadimenti naturali, un muoversi per il mondo come forma di nomadismo moderno, abbracciando di buon grado le difficoltà che comporta. Herzog traccia un sentiero tortuoso, mette in fila i passi dell’uomo che fugge da qualcosa che forse non comprende fino in fondo: la distanza da quel sé quotidiano, sociale, la possibilità e il diritto alla fuga, principio della ricerca di un modo diverso di dirsi umani. Si tratta di attraversare un percorso di disumanizzazione dove la rinuncia all’agio, al sentiero battuto, trasforma chi la compie in qualcosa, o meglio, qualcuno, la cui presenza turba l’omogeneità umana che incontra.

In “Sentieri nel ghiaccio”, Herzog descrive più volte l’incapacità di rimanere per troppo tempo a contatto con le persone: mettersi in cammino è la scelta del solitario, non possono esserci compartecipanti se il motivo per cui si arriva a muoversi è quello di diventare altro. Herzog cerca le sue “ali”, si paragona più volte a un uccello, ricerca la mimesi con l’esterno, scappa da qualcosa sperando di perderne i lasciti lungo il cammino. Parte perché è convinto che così la Eisner si salverà:la Eisner non deve morire, non morirà, io non lo permetto, scrive il primo giorno. Ma non è tutto qui: un solo pensiero che domina tutto: via di qui. Gli uomini mi fanno paura, scrive subito sopra. La mimesi con l’esterno è ancor prima identificazione con l’amica, Herzog fugge per curare entrambi, come se il suo fosse un viaggio a cavallo tra l’espiazione e il ricongiungimento. Nei chilometri che lo separano da Parigi scopre quanto possano essere assordanti il silenzio e l’isolamento, quanto siano il premio e lo scotto da pagare per poter dare veramente fondo a quella forma di disumanizzazione. Poi arrivano il ricongiungimento, la liberazione e il volo: Per un solo istante, senza peso, per il mio corpo esausto è passato come un soffio di dolcezza. Ho detto: apra la finestra, da qualche giorno io so volare. Per questo, però, è stato necessario abbandonare il mondo degli uomini e trovare gli spazi in quell’esterno già sovrappopolato, capaci di mantenersi, ancora, silenziosi e soli.

Viene da chiedersi come sia possibile allontanarsi da tutto in un mondo i cui spazi liberi sono sempre più risicati e l’incontro con l’altro, voluto o meno che sia, è inevitabile. Può esserci un paradiso terrestre per i solitari, magari abbastanza ampio da permetter loro di rimanere, appunto, solitari? Oppure ogni tentativo è destinato a essere solo parziale e temporaneo? Fino a che punto si è in grado di accettare le costanti ingerenze di una società per la quale la socialità presta necessariamente il fianco alla creazione dell’accrescimento economico e, quindi, del divario socioeconomico tra chi ha e chi non ha, regolamentato dal controllo di tutto ciò che ci rende, appunto, sociali? La vita quotidiana richiede il sacrificio della propria individualità, obbligatoriamente fagocitata dal modo in cui l’uomo ha deciso di regolamentare la propria esistenza.

Ognuno cerca di trovare un’ubicazione all’interno di questo orizzonte risicato, i propri sentieri neri come li chiama Sylvain Tesson, le vie di fughe dal gioco capitalistico degli stati moderni. Tesson traccia i propri: cartina della Francia alla mano, decide di attraversare il paese evitando per quanto possibile la vita dell’uomo in società. I sentieri neri diventano allora cartografia reale e mentale di un modo alternativo di esistere: è il medesimo diritto alla fuga che Herzog perseguiva, con la differenza che Tesson grida a gran voce il suo ruolo di fuggiasco e la volontà di sparire entro le pieghe di ciò su cui il mondo moderno ancora non ha fatto presa, creare una cartografia mentale dell’evitamento. Interrompere il commercio col mondo e sparire, riuscire a diventare parte dell’ambiente circostante: il sogno della mia vita era quello di essere completamente invisibile, gli dirà tre anni dopo il fotografo naturalista Vincent Munier.

Di fronte a una società votata alla performance e al rendimento, alla pianificazione e al controllo, Tesson scappa per ritrovare il proprio corpo spezzato (solo un anno prima, cade ubriaco dal tetto di un palazzo) e per superare la perdita della madre: affronta la geografia minore della Francia come riabilitazione, ricerca gli angoli in ombra che ancora possono essere trovati tra un centro abitato e l’altro, e tra un campo coltivato e un bosco di pini, per potersi mettere in discussione come essere vivente e come uomo. La solitudine della fuga cura, è la rinuncia al mondo, un non volerci avere più a che fare che tenta di creare un accordo tra l’essere umano, la società in cui vive e le possibilità che offre e che nega.

Non si tratta solo di solitudine, ma anche di ridimensionarsi nel creato, è la volontà di potenza che si rovescia in un desiderio di annientamento in cui ciascuno viene a far parte del mondo rinunciando finalmente a colonizzarlo. Il conquistatore torna a cogliersi come elemento tra tanti, fa parte dell’orizzonte e nient’altro: Questo significa procedere senza avanzare, viene scritto nel “Tao te Ching”.

Muoversi soli nell’esterno anche per mettersi alla prova, capire cosa si è quando gli altri non sono più a portata di mano, fronteggiarsi nei limiti e nelle zone d’ombra del proprio intimo: si tratta di una sfida costantemente lanciata verso sé stessi. Per questo si parte, per cogliersi nell’esterno nascondendosi dalla propria routine quotidiana. Il sacrificio che si compie sull’altare di un’agognata e impossibile libertà viene riscattato attraverso il ridimensionamento del sé. La natura che rimette al proprio posto è il luogo d’incontro di tutti i possibili assenti del mondo, come li chiamava Paul Valèry, dei cercatori e dei fuggiaschi, un nuovo mondo in cui potersi scrollare di dosso tutte le costruzioni di una realtà che affatica e chiede che ciascuno rinunci al proprio diritto alla fuga.

Che si tratti di Herzog o Tesson, o di alpinisti come Renato Casarotto o Nicolas Jaeger (il primo impegnato in una solitaria sul McKinley il cui diario è raccolto in “Oltre i venti del Nord. Le nuove frontiere dell’alpinismo”, il secondo solo per 60 giorni sullo Huascarán, cima delle Ande peruviane), ciò che accomuna tutte queste figure solitarie è la temporaneità dei loro tentativi. C’è sempre un ritorno in società, un rientrare tra le fila di ciò da cui si è venuti via. La solitudine in tutti questi casi diventa una spola tra un periodo e l’altro, periodi temporali in cui si decide di scappare sapendo comunque di poter tornare a casa in qualunque momento. È il tentativo di rinunciare a qualcosa a cui, forse, è impossibile rinunciare e con cui si impara, in qualche modo, a convivere.

Come tornare indietro da tanto lontano?, si chiedeva Valéry.

In chiusura, un paio di letture:

Renato Casarotto, Oltre i venti del Nord. Le nuove frontiere dell’alpinismo, dall’Oglio editore, 1986

Werner Herzog, Sentieri nel ghiaccio, Ugo Guanda Editore S.p.A., Parma, 1980

Nicolas Jaeger, Solitudine. 60 giorni solo a 6700 metri, dall’Oglio editore, 1981

Sylvain Tesson, Sentieri neri, Sellerio editore, Palermo, 2018

Lao Tzu, Tao te Ching, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano, 2016

Paul Valéry, Monsieur Teste, Se srl, Milano, 2017

(Articolo pubblicato per Arkadia Collective Lab)

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